Firenze Capitale (di Giovanni Spadolini)

Il quinquennio di Firenze capitale avrà un’importanza fondamentale e potremmo pur dire decisiva per le sorti future della città, per il suo volto di domani. Vinte le sopravvivenze separatiste che erano sopravvissute al ‘gran strappo’ del’60 (ancora fra il ’63 e il ’67 uscirà un foglio federalista, ‘Firenze’, diretto da Eugenio Alberi, misto di nostalgie lorenesi e di inquietudini montanelliane), superato il senso paralizzante e angusto della ‘Toscanina’, ultima eredità della decadenza del Sei e Settecento. Gran mescolio di ceti, principio di fusione di regioni e di tradizioni diverse.
A Firenze, del tutto impreparata ad accogliere coi suoi 118.000 abitanti e le sue antiquate strutture edilizie, arrivano oltre seimila funzionari piemontesi, la vecchia e salda e tenace burocrazia subalpina, con contorno di famiglie; arrivano dal mezzogiorno numerosi burocrati (Sbarbaro proporrà di chiamarli “scannocrati”) che erano stati assorbiti nelle file della nuova amministrazione unitaria dalla conquista del Regno.
Si mescolano i dialetti; si conciliano le abitudini; si superano le antiche e radicate prevenzioni. Si crea, in quei cinque anni, un modo nuovo di vita, nazionale e unitario, contro tutte le intransigenze regionaliste, contro tutti gli ostracismi e i ‘tabù’ municipali.
(Giovanni Spadolini, Firenze Capitale. Gli anni di Ricasoli)

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