La Repubblica di Pian dei Giullari
"Una domenica qualunque, un viaggio nei luoghi dell’età favolosa, l’infanzia. Spadolini ci accompagna tanti anni dopo nei luoghi e negli angoli riposti che gli erano familiari, tutto intorno alla collina di Pian dei Giullari. Pochi gli scorci rimasti intatti; il cambiamento, talora selvaggio, suscita amarezza e malinconia: solamene intorno alla collina resiste il sogno accarezzato nelle sue fantasie della “Repubblica di Pian dei Giullari”. (Giovanni Spadolini, La mia Firenze)
Ho seguito una specie di istinto singolare perché tracciato i confini di quello che dovrebbe essere, e naturalmente non sarà mai, il comune autonomo di Pian dei Giullari: la repubblica della mia infanzia. Sono andato a Monteripaldi, collegato a Pian dei Giullari da una strada tutte curve che ora è quasi deserta o meglio sono tornato in quella che era una passeggiata privilegiata della mia età favolosa.
Questa volta sono andato obiettivo sicuro. Monteripaldi, molto più popolato ai tempi della mia infanzia. C'erano numerosi contadini che sono andati via Il paese è rimasto pressoché deserto, non c'è neanche un bar nel centro. Sono tornata visitare la canonica molto estesa insieme molto povera. La chiesa era chiusa. La canonica anche. La vecchia villa Volpi (io la ricordo nell’34-35 già in vendita) è tutta a picco sulla roccia: la roccia che la fantasia popolare attribuisce alla costituzione che allora faceva parte dei beni della Biblioteca Nazionale di Firenze nel periodo di fine secolo. Da Monteripaldi si riparte una stradina che sbocca alle Cascine del Riccio: non so quanto utilizzabile con i mezzi motorizzati. C'è anche un viottolo che da Monteripaldi conduce direttamente a Pian dei Giullari e sbocca accanto all' antico lazzaretto che oggi è l' edificio quasi trasognato dominante l'intreccio delle strade fra Pian dei Giullari e via San Matteo di Arcetri . Ho ripercorso in macchina quel tratto, fino a via San Matteo, sono passato davanti alle scuole dei nostri nipoti ho deciso di lì di andare a rivedere la zona delle cascine del Riccio. Ma prima fatto una sosta a Piazza Calda. Piazza Calda: una variante ottocentesca , e ostentamente borghese, del turismo di questa zona; un turismo riservato, segreto, non sofisticato come a Fiesole o a San Domenico. Era tutto un piccolo villaggio di ville inglesi e americane durante la mia infanzia con la sola eccezione della villa principale da cui prendeva il nome di Piazza Calda: proprietà di una famiglia solidamente torinese di industriale della cioccolata e corrispondeva al nome dei Viola.
Ricercavo un sentiero che partiva da Piazza Calda e che portava alla collina opposta seguendo il quale si arrivava direttamente alle soglie di Grassina dove c'era la villa Signorini, un medico compagno di studi dello zio Igino. Ma in quegli anni, ’38-39 , io amavo camminare molto e non solo in bicicletta e quindi ripercorreremo questo sentiero almeno tre o quattro volte all'estate per andare a colazione da questi amici è poi la sera tornare. Era un itinerario inimitabile e inconfondibile nel ricordo: una stradina di quelle che solo la tolleranza secolare aveva consentito di far sopravvivere, per la tenacia degli usi civici. Tortuosa, accidentata, piena di sbalzi, non continuativa, con anfratti e angolosità suggestivi e cangianti. Spesso in mezzo a una specie di boscaglia che andava un tantino diradata con le mani ma certo frequentabile e anche frequentata perché la gente del luogo sapeva che esisteva e che faceva risparmiare molto tempo. Grande dolore nella memoria: non sono riuscito a ritrovare l' inizio del sentiero. C'è un punto che a me non pare corrispondere all'attuale troppo ravviato e pettinato, c’è l'avvio di una strada poi improvvisamente spezzata. Ma è una strada. Mentre il ricordo mio è di un viottolo, di un sentiero, di un qualcosa di molto più accidentato, molto meno ordinato, di molto meno visibile.
Ora sono passati cinquant'anni e più. La valle dell’Ema che allora era silenziosa, solitaria, con poche case, con pochissime ville è stata devastata dall' autostrada, è stata deformata dalla speculazione edilizia, è stata snaturata e vilipesa dal sorgere in tante case che sono spesso soltanto casuali assembramenti.
Dopo la delusione di Piazza Calda, altre più gravi delusioni accompagnarono il giro del ragazzo sognante. Vicinissimo alla vecchia villa Corradini , dopo Pian dei Giullari, c'è un' altra stradina, viuzzo dei Catinai, che porta alle Cinque Vie.
Quella stradina era continuamente evocata da persone di servizio in casa nostra e anche da vecchi casieri, che talvolta ricorrevano al loro nipote per fare acquisti improvvisi sia alla macelleria sia dal pizzicagnolo delle Cascine del Riccio intorno allo sbocco delle Cinque Vie. E ci arrivavano attraverso quell'altra strada che non può essere paragonata al sentiero di Piazza Calda, ma che era in un certo modo parallela, una strada non percorribile neanche allora con mezzi motorizzati e neanche più con cavalli o con calessi, tutta fondata su ciottoli e pietre irregolari e sconnesse. Largamente usata, almeno fino al 1940, come nastro di scorrimento della popolazione, soprattutto della popolazione contadina.
Non molte volte ma almeno due o tre volte io quella strada l’avevo percorsa da bambino, probabilmente con qualche contadino o con qualche famiglia, per andare a compiere taluni acquisti. Volevo rivedere i luoghi della mia infanzia anche in quel caso.
Ho raggiunto le cascine del riccio da via Benedetto Fortini, cioè rifacendo il giro che mi è consueto perché è la stessa strada che percorro quando rientro da Roma ed è la stessa che mi è familiare per le varie visite che compivo alla fondazione Longhi e ad Anna Banti.
Trovo lo sbocco di via dei Catinai , anzi del viuzzo dei Catinai. C’è ancora la targa della vecchia Firenze; è una targa della mia infanzia. Essa trae in inganno circa una cassa con la facciata tutta in pietra che a me sembrava di non aver visto in quella posizione ( vicino c'è una grande cava, ormai abbandonata, di pietra). Una signora molto gentile mi viene incontro, mi saluta . Le domando: è molto tempo che vive in questa casa? Dice ottant'anni, però la casa fu costruita dopo la guerra. Riconosco accanto le case più modeste che invece c'erano allora. E poi ripercorro la strada, salutato dalla gente con molto affetto e con molta cortesia, come un compaesano che torni sul luogo del passato remoto. I miei obiettivi non sono finiti. Vorrei rivedere il luogo dove il ponte sull’Ema, un ponte che fu fatto saltare da tedeschi durante la ritirata dell’44 e dove non erano più tornato dai tempi dei disastri bellici. C'è oggi un ponte più ambizioso e più orgoglioso anche se molto meno bello di quello antico, il cui volto è per fortuna conservato in un bar dell'Arci dove cortesemente mi offrono un caffè. E tutte le casini sul greto del fiume sono esattamente come allora.
Riconosco la macelleria che era molto cara mia madre, quella di Poldino. Nella strada c'è il fratello di Poldino e padre dell’attuale macellaio Moreno. Egli ricorda le scene straordinarie durante la guerra, quando noi eravamo rifugiati nella vecchia villa a Santa Margherita a Montici per sottrarci ai bombardamenti, avvenivano con l' uccisione del maiale. Poldino era addetto all' operazione, alla quale partecipava con immensa soddisfazione mia madre che attraverso il maiale acquisiva poi tutte le risorse per la casa e riuscì ad alimentare la famiglia per tutto il periodo la guerra.
E’ un clima di vecchia Italia. La gente esce per le strade, i bambini, i vecchi , non tanto perché sono zone poco popolate ma in un clima che vorrei chiamare fuciniano. I confini della repubblica, come l’immaginai da bambino, sono assolutamente identici. Domando: qual è la vostra chiesa? E’ Monteripaldi. È come siete collegati con Monteripaldi? Attraverso un viottolo, quello che appunto avevo visto alle sette e trenta e che aveva anzi stimolato in me la fantasia dei vari viottoli che collegavano la cima del colle con questa specie di dorsale.
Ripenso a San Marino perché la scena è la stessa. Sembra il monte, sopra e sotto i vari paesini di Borgo Maggiore, l’uno accanto all’altro.
Mi si dice che il parroco di Monteripaldi ha collocato anche una cappella nel paese delle Cascine del Riccio che avrà cinque-seicento abitanti, al fine di sveltire il servizio religioso. Il che spiega perché Molteripaldi si stia estinguendo anche come pietà religiosa.
Riconosco benissimo i confini, come li immaginavo da ragazzo, e li estendo idealmente al cimitero di San Felice a Ema e che è al di qua dell’Ema, il piccolo cimitero che ospita la tomba di Eugenio Montale. Idealmente lo vorrei comprendere in quello spaccato immaginario della città dell'utopia come chiamo, nei suoi limiti ferrei, Pian dei Giullari, trasformata idealmente in Repubblica pre- medievale…
E di lì voglio sciogliere l'ultimo desiderio: rivedere, ed è delusione crudele, la località di Ponte a Ema come io la ricordo da ragazzo. Poche case, poco più che alle Cascine del Riccio, un tantino più inserite nel senso del fiume della vita moderna ma completamente diverse da come le ritrovo oggi. Un orredo borgo industriale, molte fabbriche, sinistre centrali, case popolari agghiaccianti come non si vedono neanche a Rifredi o in San Frediano.
Un insieme estremamente mélangé e direi perfino conturbante, che si distingue in modo radicale da quella che è tutta la scabra dorsale del monte, quasi isolando l’elemento di fantasia e di autonomia.
Decido che non si può assolutamente far valere il criterio del fiume, il criterio dell’Ema come punto di divisione della Repubblica e bisogna rinunciare, lasciare tutta l’Ema, farla deviare nell’ansa che poco prima caratterizza il fiume ed elevare piuttosto la strada, che sarebbe poi un’autostrada, come punto divisorio in modo da lasciare via Benedetto Fortini compresa nella città del sole, si fa per dire, ed escludere tutto questo complesso che del resto poi è sotto la duplice personalità di Firenze e di bagno a Ripoli (si intrecciano infatti i due comuni e mi pare che non solo si intreccino, ma in qualche modo si sovrappongano e si urtino).
No . Ponte a Ema non mi ricorda proprio più niente. Non c'è niente dove io riveda la mia infanzia. E’ un altro mondo, quello in cui arrivo quando esco dall' autostrada di Firenze-sud nelle zone intorno a piazza Gavinana, al viale Europa di cui non c'era traccia quando io ero bambino (potrebbe essere Roma o potrebbe essere Torino), non ha niente a che fare né con Piano dei Giullari né con Firenze né con lo stile fiorentino.
Al massimo ritrovo qualche traccia di quella Firenze nelle case, quelle si, tutte con facciate in pietra, delle strade intorno a via Benedetto Fortini fino allo sblocco del Ponte di ferro. Quelle erano già costruite prima della guerra e debbo dire di più, che quelle case popolanti il rione di Gavinana a me bambino (ero ancora inesperto di arte) apparivano bellissime.
Il falso antico mi impressionava molto. Quel richiamo a motivi danteschi, della Firenze dantesca, della Firenze conservata nella pseudo-casa di Dante mi facevano una singolare impressione fin che non ebbi tredici o quattordici anni credetti che sognassero anche un livello sociale superiore a quello delle famiglie della borghesia del centro.
Era vero l' opposto. Erano tutte case di impiegati dipendenti ferroviari o postali, tutti di un ceto inferiore a quello, diciamo, dei liberi professionisti cui appartenevamo noi. Ed erano case all'interno – lo vidi una volta che ebbi un compagno di scuola da cui andare a fare i compiti - assai più modeste delle case nostre ispirate a un tenore che, come dice Montanelli, respirava il clima della borghesia toscana, la più civile di tutte le aristocrazie. A questo punto il giro è finito. Non il sogno perché il confine è perfezionato dal monte. Dalle cave che stanno sotto la villa Volpi di Monteripaldi fino all’intreccio fra via Benedetto Fortini e Santa Margherita a Montici, dove c’era l’antico dazio che tante volte fece sostare il calesse o la macchina nostra, c'è una specie di ideale villaggio della cultura e della civiltà toscana che coincide con le scene dell’assedio e che ha il suo fulcro nel borgo di Piani dei Giullari. […]
Non c'è stata la speculazione edilizia , non c'è stata la devastazione conseguente a tale speculazione, non c'è stata quell'orrenda industrializzazione che ha cominciato già a colpire la periferia delle Cascine del Riccio con l' industria del legname. Siamo rimasti ancora alla vecchia Firenze più o meno dei bozzetti di Palazzeschi o delle descrizioni di Papini giovane. E forse i confini di quello che fu un sogno di fanciullo vengono a identificarsi con quello che è l’archetipo e il bilancio stesso della vita.
L’immaginaria Repubblica dei saggi, come diceva Voltaire, si immedesima col sogno della Fondazione sempre perseguito, deriva dall' idea, tutta umanistica e rinascimentale, che la storia si cambi con la volontà e con la cultura. Ecco il risultato di questa giornata in cui le ombre dell’infanzia si sono unite con le ombre più lontane distese su questo poggio che sono ombre della libera ricerca, del libero studio e del cielo stellato il quale partì da Galileo per arrivare a noi.”
(1992, Giovanni Spadolini, La mia Firenze)
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