I fiorentini che inventarono ed esportarono il Rinascimento
“[…] La Toscana è la solo provincia italiana che non abbia dialetto, essendo il dialetto toscano precisamente l’italiano – chiamato infatti talvolta dialetto toscano (la h al posto della c, per esempio, dire hasa invece di casa è solo una differenza di pronunzia). Allo stesso modo, la pittura italiana si espresse nell’idioma toscano dai tempi di Giotto alla morte di Michelangiolo, cioè per quasi tre secoli.
Furono i fiorentini a inventare, di fatto, la Rinascenza, il che equivale a dire che furon loro a inventare il mondo moderno. […]
Ma l’invenzione del mondo moderno non poteva essere arrestata al campanile di Giotto o al San Giorgio di Donatello o alla Cappella dei Pazzi o alla Trinità di Masaccio. I Fiorentini introdussero nelle arti il dinamismo, il che voleva dire un continuo processo di accelerazione, uno slancio che provocava un facile decadimento dei mezzi, come successe per i nuovi metodi nell’industria. Per tutta la Rinascenza, l’ultima parola venne sempre da Firenze. Quando nel 1433 Cosimo il Vecchio giunse, esule, a Venezia con il suo architetto Michelozzo e una corte di pittori e eruditi, e fu alloggiato come un gran principe nell’isola di San Giorgio sulla laguna, i veneziani furono colpiti dallo spirito evoluto di queste persone, così come più tardi, al tempo di Giorgione, furono sbalorditi dall’arrivo di Leonardo. I romani, nel vedere i due giovani fiorentini Brunelleschi e Donatello dirigere gli operai negli scavi delle rovine degli antichi templi e bagni, pensarono che cercassero tesori nascosti, oro, pietre, preziose, e le misure che prendevano i due giovanotti male in arnese parevano confermare la loro ipotesi; si pensò praticassero la geomanzia o arte della divinazione per linee e figure, per trovare il luogo dove giaceva il tesoro nascosto. Un secolo più tardi, gli stessi romani, fatta propria la lezione dei <<cacciatori di tesoro>>, riesumavano il Laocoonte.
Dovunque andassero, i fiorentini agivano da disturbatori, da agenti del nuovo. Esuli, si congregarono a Ferrara, e la pittura della corte personale del Duca toccò uno splendore cromatico che raggiunse un colmo di quasi sinistra bellezza negli affreschi di Palazzo Schifanoia, allegoria delle Stagioni e Segni dello Zodiaco, fatti per le nozze del giovane Borso d’Este a sostituire gli affreschi di Piero della Francesca danneggiati dal fuoco. I fiorentini vennero a Urbino, Rimini, a Mantova e si lasciarono dietro in questi minuscoli regni capolavori squisiti di pittura, d’architettura, di scultura, come fazzoletti di meraviglioso ricamo lasciati cadere a sbalordimento delle scuole locali. Giotto aveva lavorato a Padova, alla Cappella dell’Arena, e l’influsso del suo stile monumentale si irradio per tutto il Veneto: i grandi affreschi di Treviso di Tommaso da Modena e i cicli di Altichiero a Verona proclamano, come sparse colonie, la loro filiazione fiorentina. Più di cent’anni dopo, fu ancora Padova a provare lo choc di una nuova rivoluzione fiorentina, quando Donatelo venne a sistemare l’enorme statua equestre del Gattamelata nella pubblica piazza a sfidare il mondo come un nuovo miracolo e a ispirare il giovane Mantegna e a loro volta, tramite lui, i veneziani, che eran già stati stravolti da Masolino, da Uccello e da quel selvatico montanaro della Alpi toscane, Andrea del Castagno […].
Nel secolo seguente i viaggi di Leonardo sollevarono nuove inquietudine: a Venezia, dove turbò Giorgione e il giovane Tiziano; a Milano, dove una scuola milanese di formò in gran fretta a sua immagine. Poco dopo, gli scultori funerari fiorentini trasportarono il declinante Rinascimento, come un malato, nell’Inghilterra dei Tudor; Pietro Torrigiani scolpì la tomba di Enrico VII nell’Abbazia di Westminster, e scultori nativi delle colline di Firenze, da Maiano a Rovezzano, lavorarono per il cardinale Wolsey. […] Perfino a Roma molte fra le opere più sconvolgenti (la Cappella Sistina, la tomba di papa Giulio II, la tomba di Innocenzo VIII, la cattedrale di San Pietro, gli affreschi di Masolino a San Clemente) furono fatte da fiorentini. […]”
(Mary McCharty, Le pietre di Firenze, 1956)
Furono i fiorentini a inventare, di fatto, la Rinascenza, il che equivale a dire che furon loro a inventare il mondo moderno. […]
Ma l’invenzione del mondo moderno non poteva essere arrestata al campanile di Giotto o al San Giorgio di Donatello o alla Cappella dei Pazzi o alla Trinità di Masaccio. I Fiorentini introdussero nelle arti il dinamismo, il che voleva dire un continuo processo di accelerazione, uno slancio che provocava un facile decadimento dei mezzi, come successe per i nuovi metodi nell’industria. Per tutta la Rinascenza, l’ultima parola venne sempre da Firenze. Quando nel 1433 Cosimo il Vecchio giunse, esule, a Venezia con il suo architetto Michelozzo e una corte di pittori e eruditi, e fu alloggiato come un gran principe nell’isola di San Giorgio sulla laguna, i veneziani furono colpiti dallo spirito evoluto di queste persone, così come più tardi, al tempo di Giorgione, furono sbalorditi dall’arrivo di Leonardo. I romani, nel vedere i due giovani fiorentini Brunelleschi e Donatello dirigere gli operai negli scavi delle rovine degli antichi templi e bagni, pensarono che cercassero tesori nascosti, oro, pietre, preziose, e le misure che prendevano i due giovanotti male in arnese parevano confermare la loro ipotesi; si pensò praticassero la geomanzia o arte della divinazione per linee e figure, per trovare il luogo dove giaceva il tesoro nascosto. Un secolo più tardi, gli stessi romani, fatta propria la lezione dei <<cacciatori di tesoro>>, riesumavano il Laocoonte.
Dovunque andassero, i fiorentini agivano da disturbatori, da agenti del nuovo. Esuli, si congregarono a Ferrara, e la pittura della corte personale del Duca toccò uno splendore cromatico che raggiunse un colmo di quasi sinistra bellezza negli affreschi di Palazzo Schifanoia, allegoria delle Stagioni e Segni dello Zodiaco, fatti per le nozze del giovane Borso d’Este a sostituire gli affreschi di Piero della Francesca danneggiati dal fuoco. I fiorentini vennero a Urbino, Rimini, a Mantova e si lasciarono dietro in questi minuscoli regni capolavori squisiti di pittura, d’architettura, di scultura, come fazzoletti di meraviglioso ricamo lasciati cadere a sbalordimento delle scuole locali. Giotto aveva lavorato a Padova, alla Cappella dell’Arena, e l’influsso del suo stile monumentale si irradio per tutto il Veneto: i grandi affreschi di Treviso di Tommaso da Modena e i cicli di Altichiero a Verona proclamano, come sparse colonie, la loro filiazione fiorentina. Più di cent’anni dopo, fu ancora Padova a provare lo choc di una nuova rivoluzione fiorentina, quando Donatelo venne a sistemare l’enorme statua equestre del Gattamelata nella pubblica piazza a sfidare il mondo come un nuovo miracolo e a ispirare il giovane Mantegna e a loro volta, tramite lui, i veneziani, che eran già stati stravolti da Masolino, da Uccello e da quel selvatico montanaro della Alpi toscane, Andrea del Castagno […].
Nel secolo seguente i viaggi di Leonardo sollevarono nuove inquietudine: a Venezia, dove turbò Giorgione e il giovane Tiziano; a Milano, dove una scuola milanese di formò in gran fretta a sua immagine. Poco dopo, gli scultori funerari fiorentini trasportarono il declinante Rinascimento, come un malato, nell’Inghilterra dei Tudor; Pietro Torrigiani scolpì la tomba di Enrico VII nell’Abbazia di Westminster, e scultori nativi delle colline di Firenze, da Maiano a Rovezzano, lavorarono per il cardinale Wolsey. […] Perfino a Roma molte fra le opere più sconvolgenti (la Cappella Sistina, la tomba di papa Giulio II, la tomba di Innocenzo VIII, la cattedrale di San Pietro, gli affreschi di Masolino a San Clemente) furono fatte da fiorentini. […]”
(Mary McCharty, Le pietre di Firenze, 1956)
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