La Firenze degli anni Cinquanta descritta da Mary McCarthy

“<<Ma com’è possibile viverci?>> Questa è la prima cosa che il visitatore di passaggio a Firenze, d’estate, si domanda, ed è anche l’ultima. […] Allude al rumore, al traffico, al caldo, e a qualcos’altro ancora, qualcosa che, in ricordo di passate delizie, esita a rammentare: il fatto che Firenze gli pare noiosa, opaca, provinciale. […] La città è piena di banche, di monti di pietà, di compagnie di assicurazione, di negozi che vendono stuoie e tovagliette e articoli di scrivania in pelle lavorata. I Raffaelli e i Botticelli nei musei sono stati copiati migliaia di volte; l’architettura e la scultura risvegliano memorie scolastiche. Per il gusto contemporaneo, c’è a Firenze troppo Rinascimento: troppi David, troppa pietra rustica, troppa terracotta smaltata, troppe Madonne con Bambino. Negli smorti caffè della atroce piazza della Repubblica (con un parcheggio per auto nel centro), donnone robuste vestite perbene siedono a bere una tazza di tè, e vecchi gentiluomini leggono giornali in compagnia del loro bastone. E fiori anch’essi perbene, robusti, campagnoli come le zinnie e le dalie si vendono al Mercato Nuovo, assieme ai carretti di paglia, portafogli e ceste per la spesa. Sui lungarni, vicino al Ponte Vecchio, brutti edifici nuovi colmano le voragini aperte dalle mine tedesche. […]”
(Mary McCarthy, Le pietre di Firenze, 1956)

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