Dante, alla ricerca della lingua perfetta….

“[…] Tra le opere che Dante aveva scritto prima della Divina Commedia, una era specificamente dedicata alla lingua. Alla lingua volgare, per essere precisi: quella che possiamo considerare l’antenato del nostro italiano. Anche se Dante, quell’opera, aveva deciso di scriverla in latino. Perché il latino era ancora la lingua dei letterati propri a loro Dante voleva rivolgersi. L’opera s’intitola De Vulgari eloquenti: <<Sull’arte del dire in volgare>>. Solo che in Italia di volgari ce n’erano tanti e molto diversi tra loro, così come è oggi per i dialetti. Allora Dante si mette a caccia (usa proprio questa espressione) della parlata italiana più bella e illustre. Passa in rassegna quattordici di versi volgari - dal Friuli fino alla Sicilia - e per ognuno riporta almeno una breve frase e un commento, quasi sempre negativo.
[…] il romanesco […] è per Dante un <<tristiloquium>>: un volgare squallido, il peggiore (<<turpissimus<<) tra quelli italici. Un trattamento simile è riservato al marchigiano e allo spoletino, al milanese e al bergamasco. Stando al suo orecchio, friulani e istriani <<con il loro accento bestiale eruttano Ce fas tu?>> e i sardi <<imitano la grammatica>> (cioè il latino) <<così come le scimmie imitano gli uomini>>. Allo stesso modo, Dante esclude - tra gli altri - il veneziano, il genovese, il romagnolo, il perugino, le parlate meridionali […]. Ma anche, inaspettatamente, il toscano. Le parlate toscane - scrive Dante - <<pretendono per sé il titolo di volgare illustre>>, ma sono soltanto parlate municipali: <<non c’è dubbio che il volgare di cui andiamo in cerca sia altra cosa da quello praticato dal popolo di Toscana>>. A salvarsi sono soltanto, almeno in parte, il siciliano letterario - quello che Dante attribuiva ai poeti della scuola di Federico II - e il bolognese del suo amico Guido Guinizzelli, parlata <<temperata verso est di lodevole soavità>> (ma non <<da preferire in assoluto>>).
[…] Dante non portò a conclusione la sua opera: il De volgari eloquenti rimase interrotto prima ancora di arrivare a metà. […] . Per nostra fortuna, invece, Dante riuscì a concludere la sua Divina Commedia. […] . Per il suo poema, Dante scelse di usare proprio quel fiorentino che pure aveva criticato in precedenza. Plasmando quella lingua - la sua lingua materna - , riuscì a raccontare le più basse nefandezze e le visioni più sublimi […]. Usò tutti i vocaboli che aveva a disposizione, dalla terminologia filosofica e scientifica fino alle parolacce. […] Alcune le usò in un significato nuovo, altre - quasi un centinaio - le inventò. Basta pensare  alle tante frasi del poema che sono diventate popolari modi di dire: per li rami, le dolenti note, dalla cintola in su, far tremare le vene e i polsi, senza infamia e senza lode. […].”
(Tratto da: Giuseppe Antonelli, Il museo della lingua italiana, Mondadori, 2018,  e da Mirko Tavani, Qualche idea su Dante, Bologna, il Mulino 2015)

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