Quando La Pira andò in Vietnam per tentare di fermare il conflitto
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“[…] Quando il conflitto vietnamita scoppiò con tutta la sua violenza, molti, in tutto il mondo, s'illusero che fosse possibile bloccarlo. Si distinse tra quei generosi il giurista Giorgio La Pira, sindaco di Firenze dal 1951, noto per le sue iniziative in favore della pace nel mondo e convinto che un suo incontro con Ho Chi Minh avrebbe contribuito a risolvere l'intricata situazione internazionale che si andava delineando.
La Pira partì da Firenze il 20 ottobre del 1965. In tasca aveva qualche migliaio di lire e un visto per Varsavia; in una valigetta qualche indumento e la riproduzione di una Madonna di Giotto. Sperava di raggiungere Hanoi e convincere Ho Chi Minh a bloccare la guerra. Lo accompagnava un giovane professore universitario, il matematico Mario Primicerio, che una trentina di anni dopo, nel '94, sarebbe stato suo successore in Palazzo Vecchio. Affrontando un lungo viaggio irto di difficoltà diplomatiche, il Sindaco di Firenze riuscì a incontrare nel suo palazzo presidenziale Ho Chi Minh, che lo ricevette con un semplice «buongiorno, La Pira» in italiano e un abbraccio. Era l’8 novembre 1965. Il colloquio tra il sindaco pacifista e lo statista durò tre ore: nonostante le testimonianze non manchino, i suoi contenuti
restano in larga misura celati sotto una spessa coltre aneddotica, per non dire leggendaria. La Pira non aveva in realtà alcuna veste affidale né alcun mandato diplomatico, ma era d'altro canto molto meno ingenuo di quanto non volesse apparire. Firenze era l'Atene dell'occidente, una grande città d'arte e di cultura, la madre della Modernità: e il giurista siciliano, che dal canto suo aveva la sua residenza in quel convento di San Marco del quale era stato priore Gerolamo Savonarola, sapeva benissimo tanto sia sottile in realtà il confine fra utopia e realismo. Egli aveva compreso alla perfezione il senso profondo della massima evangelica che insegna a essere semplici come colombe e astuti serpenti. Era partito nel modo formalmente più ingenuo sprovveduto, con quattro soldi in tasca che erano tutti roba senza chiedere nemmeno uno spillo al governo italiano o amministrazione della sua città: esempio tanto fulgido quanto
poco destinato, ohimè, a trovare, nella politica e nella società italiana degli anni a venire, gente disposta a seguirlo. Allo stesso con lo spudorato candore di chi non avendo alcun potere mondo, chiese papale papale al presidente vietnamita quali potessero essere le condizioni per porre fine sul nascere a un conflitto che si annunziava durissimo. Ho Chi Minh stette al gioco, e rispose con la solita pacata e inappuntabile cortesia che sarebbe bastato che gli americani ottemperassero a quattro condizioni: interrompere i bombardamenti sul Vietnam del Nord; sospendere l'invio di truppe e di materiale bellico in quello del Sud; riconoscere come interlocutore il Fronte di Liberazione, cioè Vietcong; mantenere riservati termini e svolgimento di quei preliminari, alquanto irrituali, a proposito dei quali né Mosca né Pechino erano stati informati. Insomma, accettò d'invitare gli americani a "venir a prendere una tazza di tè da lui", come si dice nell'Asia sudorientale.
La Pira rientrò in Italia a metà novembre, grazie alla cortesia del presidente Ho Chi Minh che si fece carico delle spese del viaggio di ritorno; e il governo statunitense, informato della proposta attraverso Amintore Fanfani che si trovava allora a New York con l’incarico di presidente dell'Assemblea dell'ONU, non volendo accettare i primi tre punti, respinse il quarto giudicandolo impossibile a ottemperarsi. In realtà, Casa Bianca, Segreteria di Stato e Pentagono erano allora convinti che la loro schiacciante superiorità militare avrebbe avuto ragione con poco della resistenza di un pugno di poveri contadini e che non ci fosse quindi bisogno di accordi diplomatici. Sappiamo bene, invece, come le cose andarono a finire. La guerra infuriò durissima ancora per otto anni e alla fine gli Stati Uniti furono sconfitti. L'accordo, firmato a Parigi il 2 marzo del 1973 dal segretario di Stato americano Henry Kissinger e dal rappresentante vietnamita Le Duc To, consisteva esattamente nelle prime tre clausole esposte nel novembre del 1965 da Ho Chi Minh a Giorgio La Pira. Quante vite - e quante sofferenze - si sarebbero risparmiate se l'orgogliosa superpotenza avesse dato ascolto a quel piccolo sindaco siciliano che aveva avuto l'idea di far di Firenze quel che già il Savonarola aveva sognato: la Nuova Gerusalemme, il motore della pace nel mondo.
Dell'accoglienza di La Pira a Hanoi e del colloquio tra lui e il presidente esiste anche una versione vietnamita, che ci presenta un Ho Chi Minh cordiale e sottilmente ironico: un aspetto della sua personalità che, del resto, è ben documentato da molte fonti. Ad esempio, al sindaco di Firenze che sottolineava le sue frequenti visite nei paesi socialisti, il presidente vietnamita replicò chiedendogli se non gli sembrasse di star passando un po' «troppo tempo coi comunisti». Si è anche detto che, all'osservazione di La Pira - il quale, ripetendo una frase che è stata attribuita a molti pensatori, aveva affermato che «è proprio nel momento più buio della notte che bisogna credere nell'alba» - Zio Ho rispondesse con la solita cortese eleganza citando ilGalileo di Brecht per domandargli: «Ma lei sa per caso a che ora della notte ci troviamo adesso?» […]”
(Tratto da: L’appetito dell’Imperatore, di Franco Cardini, Mondadori 2104)
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