Formaggi e pascoli nell'antica Transumanza
“[…] In estate con il latte di ogni ovino si produceva un chilo e mezzo di formaggio (nel Mugello, nel Casentino e in Alta Val Tiberina il formaggio si faceva anche mischiando il latte di pecora con quello vaccino). Quando le greggi erano in Maremma, invece, si produceva il “caciofiore”, un formaggio fresco molto ricercato, e il “forte”, formaggio da condimento dal sapore piccante, che si preparava usando come coagulante il caglio (per ottenere formaggi dai sapori più dolci si utilizzava come coagulante la presura, ricavata dal cardo selvatico).
Le caratteristiche dei formaggi, in ogni caso, dipendevano dall’erba dei pascoli: da quelle odorose di timo e lupinella della Maremma, a quelle delicate di assenzio delle Crete senesi, a quelle in cui prevalgono trifoglio e cicoria, della campagna romana. In Maremma, effettivamente, le tipologie di pascolo erano molteplici, ed assumevano una diversa denominazione in base al periodo di frequentazione e al tipo di animale. I migliori era il pascolo di stoppia, prodotto dal terreno seminato a cereali l’anno prima, e il domesticheto (pascolo in vigna, oliveto e alberi da frutto). Mentre il peggiore – da evitare – era quello umido, perché l’erba terrosa poteva provocare malattie agli animali.
Dopo la mungitura, il latte si versava nella caldaia per essere scaldato, vi si aggiungeva quindi acqua con caglio, poi si copriva finché non cagliava. Il caciere riuniva allora la pasta con le mani, formano una palla che poi divideva in tante parte quante erano le forme da preparare. Ognuna di tali porzioni veniva adagiata nella cascina, e comincia la spremitura del siero (operazione delicata, perché più la pasta è compatta, più si conserva il formaggio). Infine, le forme venivano portate nella caciaia e salate. Nel frattempo, la caldaia era messa di nuovo sul fuoco, per fare la ricotta. […]”
(Andrea Meschini – Doriano Pela, Sulle orme dei pastori, edizioni fuoridalleviemaestre)
Le caratteristiche dei formaggi, in ogni caso, dipendevano dall’erba dei pascoli: da quelle odorose di timo e lupinella della Maremma, a quelle delicate di assenzio delle Crete senesi, a quelle in cui prevalgono trifoglio e cicoria, della campagna romana. In Maremma, effettivamente, le tipologie di pascolo erano molteplici, ed assumevano una diversa denominazione in base al periodo di frequentazione e al tipo di animale. I migliori era il pascolo di stoppia, prodotto dal terreno seminato a cereali l’anno prima, e il domesticheto (pascolo in vigna, oliveto e alberi da frutto). Mentre il peggiore – da evitare – era quello umido, perché l’erba terrosa poteva provocare malattie agli animali.
Dopo la mungitura, il latte si versava nella caldaia per essere scaldato, vi si aggiungeva quindi acqua con caglio, poi si copriva finché non cagliava. Il caciere riuniva allora la pasta con le mani, formano una palla che poi divideva in tante parte quante erano le forme da preparare. Ognuna di tali porzioni veniva adagiata nella cascina, e comincia la spremitura del siero (operazione delicata, perché più la pasta è compatta, più si conserva il formaggio). Infine, le forme venivano portate nella caciaia e salate. Nel frattempo, la caldaia era messa di nuovo sul fuoco, per fare la ricotta. […]”
(Andrea Meschini – Doriano Pela, Sulle orme dei pastori, edizioni fuoridalleviemaestre)
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